i frammentini

Dicono che entro il 2030 la malattia più diffusa al mondo sarà la depressione. Non faccio fatica a crederci. Credo sia un male diffuso molto più di quanto si voglia ammettere, perché accettare che la tristezza, il veder tutto nero, il non avere buoni motivi per cui vivere serenamente è dura. Durissima se si pensa che c’è, e c’è sempre, chi sta peggio e quindi non hai il diritto di deprimerti. Durissimissima se il modello di vita che ci circonda è falsamente impostato sulla produttività, sulla performance, sul pensopositivo e tu proprio non ce la fai a sgomitare, a lottare, a sopraffare per raggiungere il tuo posto nel mondo.

Questo modello di vita, paradossalmente, diventa il potente motore che va nella direzione opposta, ovvero annichilirsi, spegnersi, perfino uccidersi se non hai gli strumenti per farcela, per essere “uguale”.

Data questa allegra e spensierata premessa la domanda è: Pitturine, ma dove vuoi andare a parare? Sei proprio sicura che sia un argomento adatto per cominciare bene il 2023?

Ebbene si, è l’argomentone che oggi mi va di raccontare, la depressione. Perché non ne sono immune, perché non ho mai avuto paura di dichiararmene affetta, perché sono convinta che sia importante e utile sdoganare un disagio mentale che è tanto diffuso quanto pernicioso. Soffro di depressione, a volte lieve a volte devastante. Attraverso periodi bui ed altri leggeri, ne esco e ne entro e penso proprio che dovrò farci i conti per tutto il resto della mia esistenza, dato che in quello che ho già consumato era presente, a volte poco e a volte tanto.

Ma anche la pittura mi è sempre stata compagna. Con periodi di silenzio, di lontananza, in cui non mi veniva proprio in mente di prendere il pennello e buttar giù i miei “reflui mentali” sulla tela e con fasi maniacali in cui mi è indispensabile, vitale stendere la tempera e lavorare sodo.

Sono passati tanti anni da quando ho cominciato a vivere e, se guardo in prospettiva, ho poche cose che si son mantenute presenti e costanti: la pittura e la depressione. Buffo, no?

Non ci vuole un gran genio della psicologia per comprendere che c’è un nesso. La pittura è cura. Sono stati scritti fiumi di saggi, alcuni perfino leggibili, circa la potenza terapeutica dell’espressione creativa. Esiste l’arteterapia, praticata in centri psicononsocosa da persone esperte e formate per alleviare la sofferenza di persone malate, dunque sto scrivendo cose assolutamente ovvie, conosciute, praticate ed efficaci.

Se ci si ascolta ci si salva, tutto qua. Ho imparato a dar retta a quella voce interiore, quando mi bussa alla porta dell’anima per chiedermi di essere ascoltata. Ha bisogno di colore, di luce, di armonia, di bellezza. E io l’accontento, perché mi fa sentire meglio.

Ci ho pensato tante settimane, ho chiesto aiuto a chi vedeva le mie immagini postate sui social: che nome devo dare a queste composizioni? C’è qualcosa di naturale, c’è qualcosa di armonioso ma caotico, casuale. Un po’ ossessivo compulsive, un po’ da perdersi dentro ai meandri, d’accordo, ma c’è della poesia nel voler dar ordine al caos…Dovevo trovare un titolo antidepressivo!

E così mi è uscita ‘sta idea di chiamare questa finta serie di multipli “i petali”. Richiamano cose vere ma sono robe astratte, racchiudono armonie di colori ma sono frutto di improvvisazione. Come sempre parto da uno sfogo cromatico, accosto la tempera a sentimento, spingo i toni fino ad arrivare ad armonie forti e poi, con maniacale pazienza, con infinita passione, racchiudo i gruppi cromatici dentro alla danza dei neri fini, creando i petali. Mi ci perdo, ci gioco.

Forse è un’illusione, ma secondo me, mettersi lì a guardare i petali fa star meglio. Chissà. E buon anno: sia che si debba attraversare ancora tanto dolore sia che si riesca ad approdare su una riva pacifica.

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